Dire a qualcuno che è un gay è una vera e propria ingiuria, anche se la persona a cui è rivolta l'espressione ha tendenze omosessuali e nonostante ci si dichiari "senza pregiudizi e laici di mentalità aperta". Lo ha deciso la Cassazione. La Suprema Corte ha definito l'espressione censurabile poiché esprime riprovazione per le tendenze omosessuali e un "inequivoco intrinseco intento denigratorio".
La Cassazione si è pronunciata così su una richiesta di risarcimento per ingiuria. Dante S., mirava, come Luciano T., un suo collega, al posto di comandate della polizia municipale di Ancona. Dopo un litigio Dante si era sfogato scrivendo una lettera a Luciano nella quale gli "rinfacciava" di essere gay e di "aver trascorso una vacanza in montagna con un marinaio e di essere stato allontanato da un club sportivo frequentato da ragazzini".
Dante era stato immediatamente denunciato dal collega Luciano e in primo grado il giudice di pace di Ancona lo aveva condannato ad una multa di 1500 euro per ingiuria, poi ridotta a 400 euro.
La difesa allora ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che Dante S. non aveva alcuna intenzione di denigrare il collega ma che voleva semplicemente dirgli il perché tra i due non si erano mai instaurati "rapporti di familiarità. La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso spiegando che "non vi è spazio per la prova liberatoria" nei confronti del vigile urbano che aveva denunciato per iscritto l'omosessualità del collega.
Il signor Dante è stato condannato a sborsare 1000euro alla cassa delle ammende e a rifondere il collega ingiuriato con 3000 euro per le spese processuali sostenute.
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